Qualche giorno fa mi è tornato in mente un racconto di Poe, di cui ricordavo poco: tutti i nobili del paese, spaventati dalla pestilenza, si rinchiudono assieme in un palazzo banchettando per mesi, ma finiscono per morire proprio a causa della stessa.
Il protagonista è un principe di nome Prospero, le cui terre vengono devastate da una terribile malattia. Disinteressato alla sorte dei meno abbienti, decide di riunire la nobiltà nel suo sfarzoso palazzo cercando ingenuamente di creare un luogo ameno, nettamente separato dal terrore e dalla disperazione che il morbo ha portato nel mondo esterno.
La descrizione degli ambienti in cui si svolge il racconto ha un ruolo cruciale: ci sono sette stanze disposte da est verso ovest, come il moto apparente del sole, in modo tale che da ognuna non sia possibile scorgere l’interno della successiva. I colori con cui sono arredate non sono semplicemente conformi all’estetica di Prospero, ma rappresentano, anche nell’ordine in cui sono collocate, le fasi della vita. Nell’ultima sala, dove nessuno degli astanti si recava mai, era predominante il colore nero; dalle sue vetrate penetrava un’intesa luce scarlatta, lo stesso colore con cui ci si riferiva al morbo – “la morte rossa”. A renderla ancora più inospitale era la presenza di un orologio a pendolo, i cui rintocchi imperiosi costringevano i musicisti a smettere di suonare, creando un turbamento momentaneo a tutti gli ospiti del palazzo. Il tempo trascorreva inesorabilmente anche per chi cercava di sfuggirvi, perdendosi nei festeggiamenti lussureggianti della dimora del principe.
Dopo mesi di baldoria viene organizzato un ballo in maschera. La varietà dei travestimenti descritti simboleggia l’umanità nella sua interezza, che nonostante le innumerevoli diversità condivide un’unica sorte.
Durante la festa viene notata la presenza di qualcuno che, volendo probabilmente fare uno
scherzo di cattivo gusto, si era travestito da Morte Rossa indossando un sudario insanguinato e una maschera da cadavere. La maschera del misterioso guastafeste è un affronto, perché rappresenta proprio ciò da cui tutti stavano cercando di sfuggire: malattia, dolore e morte. Prospero, adirato, si dirige verso l’inquietante soggetto, ma proprio quando gli arriva a pochi metri di distanza, cade atterra senza vita. Nel tentativo di smascherarlo, gli astanti scoprono che sotto il sudario non c’è nulla.
Pochi attimi dopo, tutti andarono incontro allo stesso ripugnante destino.
Paradossalmente, l’unica certezza della vita umana – la morte – rappresenta anche l’ignoto, su cui i più inclini alla riflessione si sono interrogati per secoli.
Paradiso, Inferno, reincarnazione.
È davvero difficile concepire sé stessi come puro accidente della materia – con la peculiare capacità di contemplare la propria esistenza.
La nostra morte coincide non solo con la fine del proprio ego, ma anche con la fine del mondo per come lo conosciamo, visto dalla nostra particolare prospettiva.
Il momento in cui si acquisisce consapevolezza dell’altro, con tutto ciò che questo implica, avviene in genere prima dei 10 anni – chiunque avrà presente casi di regressione in individui che hanno superato quest’età da diverso tempo (e non mi riferisco alle regressioni legate alla senilità).
Se si incontrano difficoltà nel concepire l’esistenza di diverse prospettive, assieme al loro interagire, si può immaginare cosa possa causare nella psiche l’ipotesi che il proprio angolino di mondo possa svanire per sempre. Le ipotesi di vita eterna o di vita successiva a questa rappresentano il soffice materasso infondo al baratro, rendono più sopportabile l’idea della caduta.
Durante la pestilenza, l’altro diventa l’incarnazione di quest’amara certezza: la propria fine. Tutto ciò che è esterno non può entrare nel gaio mondo del principe Prospero – fatta eccezione per quella luce scarlatta… Se la morte risulta spesso inaccettabile, tanto più lo è la malattia. La malattia è una morte che se la tira.
Questo meraviglioso racconto con una morale lapidaria può essere usato per approdare a un’altra questione: se la paura della morte non fosse altro che la paura della vita stessa, in quanto finita e irripetibile? Il fatto che si tratti di un periodo conchiuso trasmette a molti paura e tristezza; quando si è presi dall’angoscia si tende a trascurare il valore dell’esistenza di per sé, la quale, come scrisse Dawkins, dovrebbe suscitarci stupore: «Su un pianeta, forse su un solo pianeta dell’intero universo, molecole che di norma non produrrebbero niente di più complesso di una roccia si aggregano in pezzi di materia grandi come una roccia ma di tale incredibile complessità da poter correre, saltare, nuotare, volare, vedere, udire, catturare e mangiare altri pezzi animati di materia complessa; da poter, in alcuni casi, pensare, sentire, innamorarsi di altri pezzi di materia complessa.»[2] Si pensi a tutto ciò che è presente nella nostra galassia: quante probabilità avevamo di essere proprio delle creature umane? Davvero poche.
Questo dovrebbe aiutare a ridimensionare la prospettiva sulla morte, considerando l’assurda capacità che abbiamo di contemplare la nostra stessa esistenza – sappiamo di esistere, nonostante rendersene conto, talvolta, può essere un po’ raccapricciante; se non altro, perché evidenzia la pressoché totale responsabilità che abbiamo nei confronti del tempo a noi concesso. Nessuno dovrebbe permettere che questa consapevolezza venga detronizzata dalla paura di morire.
Le esperienze della vita e i sentimenti che ne scaturiscono non hanno meno valore proprio perché non sono eterni, anzi: «Quanto più ci si rende conto che la vita è una sola, tanto più la si considera preziosa.» [3]
NOTE
1 E. A. Poe, Racconti del Terrore (Mondadori, 2013).
2 Dawkins, L’Illusione di Dio (Mondadori, 2007), p. 223.
3 R. Dawkins, L’Illusione di Dio, p. 219.
BIBLIOGRAFIA