Negritude

Negritude

Nel suo saggio “Orfeo nero”, Senghor fa conoscere all’Europa il significato della parola ‘negritude’. Nei costumi, nei canti, nei ritmi, nelle danze, di cui il tam tam, nel rullio martellante dei tamburi. Ma cos'è veramente questa negritudine?

Negritude come condizione dell’anima.

Sartre è stato uno dei primi a riconoscere nella figura di Senghor (1906-2001) una voce poetica nuova, fautrice di una poesia militante come catalizzatore del movimento di emancipazione dei neri. Nel suo saggio “Orfeo nero” fa conoscere all’Europa il significato della parola ‘negritude’, in un epoca in cui il neocolonialismo occidentale cerca di lavare le facciate di una cattiva coscienza con lo smantellamento delle vecchie strutture di dominio, ma già avidamente forte di nuove pastoie, più subdole e sottili, che mantenessero il servaggio.

Di questo Senghor era perfettamente consapevole, lui che era stato inviato dai suoi genitori come un pacco postale dal Senegal sotto i grigi tetti di Parigi. Qui riceve un’istruzione, apprende la lingua dei dominatori, quel francese che lui userà per costruire, insieme ad altri poeti neri francofoni, uno strumento malleabile che porta se stesso al limite delle sue possibilità, autodistruggendosi e riformulandosi al servizio di una rivoluzione etnoculturale.
Quella distruzione che già avevano sperimentato i surrealisti, si carica di un valore più elevato, in quanto palingenesi di un rinnovato soggettivismo distrutto dal neocolonialismo. Dopo la laurea in Lettere presso l’Ecole Superieure, il suo percorso letterario si intreccerà con quello dell’impegno politico fino ad essere eletto Presidente del Senegal nel 1960.


Lei dorme, riposa sul candore della sabbia/ Koumba Tam dorme. Una palma verde vela la febbre dei capelli…/viso di maschera chiuso all’effimero, senza occhi, senza materia…/o viso tale come Dio ti ha creato prima della memoria stessa dell’età./Viso dell’alba del mondo, non ti aprire come una gola tenera per commuovere la mia carne./Io ti adoro, Bellezza, con il mio occhio monocorde

(da “Maschera negra” in Canti d’Ombra, Passigli Editore, 1945)


Sartre commenta questo passaggio come “una esperienza emotiva da cui sgorga una nudità senza colore, che è amore, linguaggio dei sensi, testimonianza di un Eros naturale. E’ il dionisiaco che travolge l’apollineo, che inghiotte nei suoi abissi le sue certezze razionali e dimostra l’impossibile aderenza della parola alla cosa.” 

Ma cosa è allora veramente questa negritudine? E’ una discesa negli abissi di se stessi: come Orfeo scende negli inferi per chiedere la restituzione di Euridice a Plutone, così il poeta nero reclama la sua origine, si rotola per terra con gli abiti lacerati e lisi, cantando il dissidio della vita dilaniata fra la civiltà e il vecchio substrato nero.
Nei suoi picchi di lirismo si rivela il bifrontismo della poesia nera, con i due volti complementari di soggettivismo e di collettività, per cui il poeta parlando per sé, parla per tutti e la questione privata si trascende in un’istanza collettiva.


Ti ho accompagnato fino al villaggio dei granai, alle porte della Notte/ ed ero senza parole, di fronte all’enigma d’oro del tuo sorriso…Dall’alto della collina rifugio di luce ho visto spegnersi lo splendore del tuo perizoma/ e il tuo cimiero come un sole inabissarsi nell’ombra delle risaie,/quando mi hanno assalito le angosce, le paure ancestrali più subdole delle pantere…/ dormirò nel silenzio delle mie lacrime/fino a che sfiori la mia fronte l’alba di latte della tua bocca.

(daNottein Canti d’Ombra, Passigli Editore, 1945)


La vera rivolta che sola può spezzare le catene è questa riadesione al substrato, e si compie attraverso l’uso di un linguaggio ad alta densità analogica, contro il concettualismo denotativo occidentale. Punto veramente critico di questa riappropriazione di identità, è che essa avviene tramite la lingua degli oppressori.

La soluzione è simile a quella dei surrealisti che vede la distruzione del linguaggio dall’interno: distruggerlo significa “spezzarne le associazioni abituali, svuotare le parole della loro bianchezza e trasformare una lingua in rovina in un superlinguaggio solenne e sacro.” (da “Orfeo nero” Sartre, cfr bibliografia.) Così ci imbattiamo in vertiginose analogie nelle invocazioni come: “liberami dalla notte del mio sangue” (da “Congo“, in ” Canti d’Ombra” cfr. bibliografia).

Dove si trova allora questo abisso della negritudine? Nei costumi, nei canti, nei ritmi, nelle danze, di cui il tam tam, nel rullio martellante dei tamburi, lo strumento è indiscusso prima della parola stessa. L’atto poetico si traduce in una danza per l’anima e in questo scorrere ritmico l’Orfeo nero spera di recuperare Euridice.
Come un santone istruito, il poeta cerca di farsi possedere per il tempo sufficiente di una ispirazione dalla negritudine del suo popolo.
Come ha acutamente osservato Sartre la simbologia della poesia nera è “ricolma di simboli vegetali e sessuali, in opposizione all’occidentale mineralizzato nella poesia.”


Andremo a Belborg dove gli uomini si nutrono di ghiaccio? Oppure a Moussouro ti ricordi! Dove i pavoni fioriscono selvaggi? Le donne sono alte quattro cubiti:i loro seni maturano al sole/ le loro gambe lente appaiono e scompaiono sotto le nubi come le Cretesi.

(daQuesto lungo viaggioin Canti d’Ombra, Passigli Editore, 1945)


E ancora nei versi che seguono possiamo constatare come la voce poetante sia la manifestazione e incarnazione dell’Eros naturale, volta a celebrare la materia da cui hanno preso forma la donna, l’atleta, la gazzella, la cui magnifica bellezza è serenamente inserita in un processo ciclico di generazione e distruzione:


Donna nuda , donna scura/frutto maturo dalla polpa soda, buia estasi del vino nero, bocca che fai lirica la mia bocca… Tam tam scolpito che risuoni sotto le dita del Vincitore…olio sui fianchi dell’atleta, sui fianchi del principe del Mali, Gazzella dalle giunture celestiali…all’ombra della tua chioma, la mia angoscia si rasserena…canto la tua bellezza che passa, la tua forma che fisso nell’Eterno/ prima che il Fato geloso ti incenerisca per nutrire le radici della vita.

(daDonna nerain Canti d’Ombra, Passigli Editore, 1945)


E’ lo stesso poeta in un discorso tenuto alla Sorbona (1956) che spiega la sua concezione della sensibilità poetica nera, in contrapposizione al pensiero logico e razionale dell’uomo occidentale. L’Occidente da Aristotele in poi si è impegnato in una strenua categorizzazione degli oggetti nella realtà, in un tentativo prima di ordinare il caos, poi di governarlo, per poter mettere la materia al servizio dell’uomo. L’Africa di Senghor non ha conosciuto questa forma mentis, tutta percorsa da uno spiritualismo che vede l’uomo in un rapporto armonico con i ritmi della Natura, vista come un Tutto in cui annullare le istanze utilitariste di una circoscritta individualità.


Qualcuno mi ha rimproverato di aver definito l’emozione come negra e la ragione come ellenica, cioè europea. Ed io mantengo fermamente questa tesi. Il fatto è che il bianco europeo tiene l’oggetto a distanza, lo guarda, lo analizza, lo distrugge o per lo meno lo soggioga per utilizzarlo. Il negro africano intuisce l’oggetto ancor prima di sentirlo, ne assimila le onde invisibili e i contorni. Poi in un atto d’amore lo incorpora per conoscerlo profondamente.


Bibliografia:

1. Jean-Paul Sartre, Orfeo nero, Una letteratura poetica della negritudine, Marinotti edizioni, 2009
2. Leopold Sedar Senghor, Canti d’Ombra, Passigli Editore, 1945

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