Il Simbolo nella pratica riabilitativa

Grafica di Martina Santurri
Grafica di Martina Santurri

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Riflessioni

Quando penso allo psicologo Massimo Buratti e alle riunioni di supervisione alle quali ho potuto partecipare come tirocinante, mi viene spesso in mente una frase che egli è solito citare. Una metafora, per meglio dire, presa in prestito dal suo “maestro” 1 e che ben racchiude il ruolo degli psicologi di comunità: devono essere bravi a riparare gli oggetti rotti, a usare gli arnesi, a fare gli idraulici, a sistemare porte inceppate.
Questa sarebbe la conditio sine qua non per essere assunti in Fondazione Lighea 2. Non ho mai capito se fosse un criterio effettivamente preso in considerazione al momento dei colloqui o solo una metafora per far riflettere i neo-laureati. Credo, in entrambi i casi, di essere d’accordo: lavorare con la malattia mentale significa forse rendere tangibile, attraverso un oggetto o un gesto, il disagio, mostrando visivamente come esso possa essere “maneggiato” e traducendo temporaneamente quel problema in un tubo rotto da sistemare, quel brutto pensiero in un buon tè da far bollire. Per i non addetti ai lavori, mi riferisco alla vita vissuta dai pazienti in comunità, ad un gesto quotidiano per scacciare i cattivi pensieri insieme all’operatore che agisce, che sta ai fornelli e aiuta a sistemare la stanza, in un silenzio in grado di stemperare gli animi più di qualsiasi altra iniziativa verbale. È quello che in fondo – come direbbero alcuni psicologi – facciamo noi cosiddetti “nevrotici”, non sempre in modo consapevole, quando svolgiamo quei preziosi riti mattutini o prendiamo il caffè tutti i giovedì con quel caro amico.
Questo mi sembra un buon punto di partenza per riprendere, nella mia mente, l’incontro avvenuto lo scorso giugno con Buratti sul tema del simbolo nella pratica riabilitativa. A tal proposito, il nostro ospite ha subito distinto tra la capacità di simbolizzazione di un nevrotico e quella di un “matto” all’interno dei percorsi di supporto 3. Nel primo caso si parla dei cosiddetti “percorsi psicologici”, nel secondo caso di “riabilitazione psichiatrica”. Tale differenza sulla simbolizzazione (e conseguentemente sulla capacità di divenire consapevoli circa il significato sintomatologico di un nostro disagio) si ripercuote sulla diversa modalità di approccio al problema che il cliente e lo stesso psicologo utilizzano.
Durante un nostro prolungato periodo di sofferenza, spesso il piano simbolico viene compresso e si perde temporaneamente la capacità di consapevolizzare la radice del proprio malessere. Lo si converte, semplicemente, in attesa che qualcosa cambi o, nel migliore dei casi, che il processo di nominazione abbia inizio e si verbalizzi il disagio. Nell’universo psichiatrico invece, il piano simbolico diventa concreto, spesso delirante. Il corpo diventa il luogo in cui si esprime un’instabilità psicologica.
A differenza del nevrotico, il paziente psichiatrico grave non è in grado di realizzare questo tipo di connessione, ovvero di visualizzare la portata simbolica del sintomo e del suo dissiparsi dopo aver esaurito la sua funzione di messaggero. Così facendo, il disagio del paziente, trasferito temporaneamente sul corpo, rimane inaccettabile e inaccessibile alla coscienza o, qualora superasse tale soglia, la consapevolezza ha comunque spesso esiti nefasti, come l’esaurimento psichico e l’ospedalizzazione.
I pazienti più allenati riescono, con tecniche e strategie affinate negli anni, ad allontanarsi, dice Buratti in supervisione, dalla “bestia”, ovvero dalla malattia che li attanaglia e che prescinde – sia chiaro – dalla loro buona volontà di stare meglio. In questo modo riescono a stare lontani da quelle domande senza soluzione; quelle stesse domande con le quali noi “sani” – per così dire – riusciamo a convivere con più facilità, aiutati dalla verbalizzazione del disagio.
Nel nostro caso l’universo simbolico assume – come direbbe Carl G. Jung – un significato non solo retroattivo ma anche proattivo (possiamo cioè agganciarci ad esso per usarlo come slancio, come trasformatore di energia in grado di proiettarci in avanti, al dopo che verrà).
Del resto, secondo il nostro ospite, una cosa può essere pensata solo se esiste e ha un nome. L’indicibile può essere sentito, percepito, ma non può essere pensato finché non è presente nel nostro universo consapevole. Ciò può accadere a chiunque: è il caso dei disagi relazionali, spesso convertiti in qualcosa di concreto come l’asma, l’ansia, i problemi respiratori, sintomi che spesso nascondono una spiegazione psicologica, una difficoltà affettiva, come se qualcuno ci togliesse – letteralmente – l’aria.


“Spesso, basta toccare i tasti giusti per vedere sgretolarsi sulla faccia dell’Altro la difesa ed emergere l’umano”.


In una dimensione di perdita iniziale combattiamo il dolore, come quando durante la fiumana il giunco si piega per non rischiare di essere spezzato dalla forza dell’acqua. Ma quando il peggio è passato, quando riusciamo a rivedere il percorso fatto e mettiamo in discussione le nostre risposte, allora, finalmente disarmati, riusciamo a mettere in ordine il detto e il percepito, smascherando così i nostri comportamenti precedenti, spesso solo apparentemente casuali.
Questo capita anche a noi psicologi, soprattutto durante le supervisioni, ovvero in uno spazio protetto in cui i nostri dubbi e disagi con i pazienti sono accolti e ascoltati da un professionista che osserva con cura il manifestarsi delle dinamiche interiori.
“Più parole troviamo e più pensieri possiamo fare”, afferma Buratti. Cita, a tal proposito, la Lettera sull’«Umanismo» di Martin Heidegger: il linguaggio è la dimora dell’essere e i suoi guardiani sono i filosofi e i poeti. Forse anche gli psicologi custodiscono qualcosa (o la imparano, per meglio dire) durante il loro percorso di formazione accademica e soprattutto personale, prima (si spera) di interfacciarsi con l’Altro.
In conclusione, ritornando alla metafora iniziale sul saper “aggiustare gli oggetti rotti”, credo si tratti della capacità di poter tirare fuori, insieme al proprio assistito, un disagio, non solo attraverso la nominazione ma anche grazie all’abilità di rappresentarsi il problema – in maniera simbolica – allo stesso modo in cui si parla di un tubo rotto da sistemare o della procedura migliore per preparare un tè. Un ottimo tè.

Il video dell’incontro

Breve biografia di Massimo Buratti

Filosofo, psicologo, criminologo, musicoterapeuta, counselor, formatore e supervisore clinico. Docente a contratto presso l’università Ca’ Foscari di Venezia e presso l’Università Bicocca di Milano.

Lavora dal 1993 nel campo della riabilitazione psichiatrica e psicosociale e attualmente è vicepresindente della Fondazione Lighea Onlus, realtà che opera sul territorio lombardo in merito al disagio psichico. Dal 2015 è supervisore clinico presso il Policlinico San Matteo di Pavia, nel reparto di oncoematologia pediatrica della struttura. Socio fondatore di Aspic Psicologia di Milano, svolge anche attività di filosofo formatore e counselor clinico presso Studio Eidos – Formazione e ricerca.

Si occupa da anni di formazione esperienziale, team-building, coaching in ambito sanitario, scolastico ed aziendale. Ha pubblicato diversi articoli su tematiche cliniche, di riflessione e di filosofia teoretica. Di recente, come psicologo clinico di Soleterre ONLUS, ha svolto attività di supporto al personale ed ai familiari presso il Policlinico San Matteo di Pavia in seno all’emergenza Covid-19.

NOTE:
  1. Il dottor Giampietro Savuto, presidente di Fondazione Lighea Onlus.[]
  2. Fondazione Lighea Onlus è una realtà milanese presso cui Massimo Buratti è Vicepresidente e che si occupa nello specifico di pazienti con disagio psichico.[]
  3. La parola matto per Fondazione Lighea non ha un’accezione dispregiativa e viene spesso utilizzata per sensibilizzare la popolazione nei confronti dello stigma contro il disagio psichico. A tal proposito è stato istituito nel 2018 “Il matto dell’anno”, un evento pubblico in cui viene premiato un personaggio di spicco e particolarmente intraprendente della città di Milano.[]

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