“Allora, prima della Grande Guerra, all’epoca in cui avvennero i fatti di cui si riferisce in questi fogli, non era ancora indifferente se un uomo viveva o moriva.”
Il romanzo più noto di Joseph Roth, del 1932, tratteggia con toni elegiaci e quasi nostalgici la fine dell’impero asburgico attraverso le vicende di tre generazioni della famiglia Trotta. Durante tutto il corso della vicenda il declino della società asburgica è visibile, tangibile e, nonostante tutto, inesorabile. L’impero prossimo ad entrare in guerra è come il suo imperatore: vecchio, malato e stanco.
Come giustamente viene fatto notare nell’edizione italiana della Adelphi, per Joseph Roth l’impero asburgico non è solo un’entità statale lontana, ma un personaggio, un personaggio che si declina di volta in volta in maniera diversa, ma che appare spesso sotto forma del ritratto dell’imperatore, che tutto vede in ogni parte dell’impero.
Letto dalla parte opposta delle Alpi, il romanzo di Roth offre una rappresentazione inusuale del grande impero, nemico nostrano durante la Grande Guerra. La compagine territoriale guidata da Vienna non è più “l’austria bicipite” di gaddiana memoria o il temibile esercito dell’altopiano di Asiago, ma diventa uno stato che come gli altri presenta le sue fragilità e le sue contraddizioni.
Composto da una pletora di popoli con lingue e religioni diverse, attraversato da spinte indipendentiste e fiaccato dall’età e dalla lentezza, l’impero si spegne insieme alla famiglia Trotta all’alba del conflitto mondiale, che segna la fine di un’età irripetibile. Ad accompagnare i due declini, quello pubblico e quello privato, è l’allegria della marcia di Radetzky, suonata da una banda provinciale la domenica pomeriggio, che trapassa gli anni e le crisi, facendo apparire sempre uguale uno scenario sempre più diverso.