In questi giorni drammatici che stiamo vivendo capita spesso d’imbattersi in citazioni tratte dai classici che descrivono le grandi epidemie di peste del passato, da quella di Atene del 430 a.C. descritta da Tucidide a quella di Orano degli anni ’40 descritta da Camus nel libro che ne porta il nome, passando per la peste del 1348 descritta dal Boccaccio nel Decameron fino ad arrivare a quella che è forse la più nota, l’epidemia descritta con straordinaria puntualità dal Manzoni nei Promessi sposi, la peste del 1630.
Trovare nei classici parole che possano essere usate per descrivere, a distanza anche di secoli, il mondo di oggi, è ciò che generalmente permette di chiamare un’opera, in questo caso letteraria, “un classico”. Classici erano detti nell’antica Roma i cittadini più abbienti che sia in tempo di pace che in tempo di guerra avevano l’onore e l’onere, notevole in verità, di armare la flotta, in latino classis appunto, la più dispendiosa tra le parti dell’esercito, che pertanto era riservata solo ai cittadini di reddito maggiore, i più importanti in città e nell’impero; da qui l’uso, già diffuso presso gli antichi, di designare le colonne portanti della letteratura o dell’arte in generale come “classiche”. Oggi, se da un lato l’accezione dell’aggettivo “classico” è mutata, passando a designare anche uno stile ben definito, d’altro canto è rimasta più o meno intatta la percezione, nel nostro modo di pensare, che i classici abbiano una rilevanza particolare, che siano, per così dire, opere che non tramontano mai; che siano da prendere a modello positivo o negativo, da emulare o da rovesciare, è comunque fuor di dubbio che si tratti di opere di cui non si può che tener conto. Dall’exordium della prima Verrina sull’indegnità della corruzione della classe politica fino al personalissimo flusso di pensieri e ricordi associati ad un’esperienza sensoriale come descritto da Proust nel celebre episodio della madeleine inzuppata nel tè, ognuno di noi ha incontrato nelle sue letture dei brani che, tolti dal loro contesto ed accostati a uno nuovo, non perdono affatto la loro validità, e anzi offrono lo spunto per una riflessione che si può applicare alla nostra realtà odierna: è questo lo spirito dell’humanitas, che è poi quello spirito che ci spinge a leggere ancora al giorno d’oggi i classici.
Ora, vista la situazione che, con ogni giorno che passa, assume sempre più la forma di una tragedia collettiva, è naturale che ci si trovi a confrontare questo dramma presente con quello che, forse perché parte di un’opera che ha segnato la nostra storia e la nostra cultura come italiani o forse per la vicinanza geografica dell’autore milanese e dei luoghi di cui parla, ci suona più familiare: la peste del Manzoni. Guardando fuori dalle nostre finestre e vedendo le strade delle nostre città sorge quasi spontaneo pensare alla descrizione delle strade di Milano deserte, ma le analogie che si possono fare sono molte altre ancora, perché nonostante siano passati quasi quattro secoli la natura umana non è affatto cambiata. Le mascherine hanno preso il posto delle lunghe maschere con il becco pieno di erbe benefiche, e l’amuchina il posto di acqua e aceto; ma mentre la “caccia all’untore” ci sembra una follia irragionevole frutto dell’ignoranza, l’interesse morboso sull’identità del “paziente zero” ci appare del tutto giustificata, e vedere le bare dei morti portate via dai convogli militari verso sepolture non «confortate di pianto» non ci desta lo stesso senso di raccapriccio che desta in noi la descrizione dei carri dei monatti. Se l’immagine del lazzaretto dove i malati di allora, spesso dopo essere stati strappati a forza dalla propria casa, venivano ammassati per contenere il contagio, non ci ricorda, almeno in parte, i reparti di terapia intensiva dove i malati di oggi spesso trascorrono i loro ultimi giorni senza poter essere confortati dall’affetto dei loro cari, allora forse significa che le pagine più drammatiche e pietose del Manzoni non ci hanno insegnato nulla, che la nostra lettura dei classici si è limitata a un mero esercizio di erudizione fine a se stesso. Le descrizioni che ci fanno rabbrividire, come i carri dei monatti sui quali gli agonizzanti sono gettati come se fossero già cadaveri, o quelle che ci commuovono, come l’ultimo saluto della madre di Cecilia alla sua bimba morta, non devono rimanere un’esperienza più o meno gradevole conclusa in sé, ma devono servire come punto di partenza per una riflessione che sia poi applicata alla nostra realtà, ai tempi d’oggi.
…e allora ciascuno di noi, come Renzo, «metterà certi sospironi larghi e pieni», pensando a quando «si vedrebbero riaperti usci e botteghe, non si parlerebbe quasi più di quarantina; e della peste non si vedrebbe che qualche resticciolo qua e là: quello strascico che un tal flagello lasciava sempre dietro a sé per qualche tempo.»
La descrizione di quell’epidemia di peste, come delle tante altre che si trovano nella letteratura, non è un saggio di ricostruzione storica basato sullo studio delle fonti, né un divertissement letterario sul gusto dell’orrido, ma è piuttosto monito che ci ricorda anche in tempi sereni l’esistenza delle calamità, e insieme un exemplum che mostra dei modelli di comportamento in una situazione catastrofica, una di quelle situazioni che possono fare emergere il lato peggiore di ciascuno, lasciando spazio all’egoismo, alla grettezza, a tutti quei bassi istinti che il timore di una morte imminente può risvegliare come nel Griso che per poche monete tradisce il suo padrone nel momento del bisogno; ma allo stesso tempo, in una catastrofe del genere germogliano, come le prime foglie sui rami ancora spogli dopo l’inverno, molti esempi di altruismo altissimo e disinteressato, quasi eroico, di dedizione al prossimo per il bene della comunità, di quei tanti fra’ Cristoforo o padre Casati d’oggi che nelle corsie d’ospedale, nei supermercati o dovunque lavorino, continuano, proteggendosi con tutte le precauzioni che si possono adottare in situazioni simili, a svolgere il loro dovere senza sosta, anche nei momenti più difficili.
Il cielo sempre più limpido delle nostre città meno intossicate dallo smog mal ricorda il cielo grave che pesava su Milano in quell’estate del 1630, ma tutti noi speriamo come allora in una pioggia purificatrice che ponga fine a questa epidemia, e allora ciascuno di noi, come Renzo, fiaccato dai postumi della convalescenza e del lungo viaggio, «metterà certi sospironi larghi e pieni», pensando a quando «si vedrebbero riaperti usci e botteghe, non si parlerebbe quasi più di quarantina; e della peste non si vedrebbe che qualche resticciolo qua e là: quello strascico che un tal flagello lasciava sempre dietro a sé per qualche tempo.»
Andrà tutto bene.