Il simbolo si fa gesto: le arti performative

Grafica di Martina Santurri
Grafica di Martina Santurri

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Riflessioni

La sala inferiore di Campus Café è buia, illuminata soltanto da alcune candele accese sui pochi tavolini rimasti posizionati agli angoli. Enya mi prende per mano e mi accompagna in punta di piedi al centro della sala, davanti a un lungo tavolo rivestito con una tovaglia scura sulla quale spiccano tanti piccoli pezzetti dai bordi imprecisi di quella che sembra carta. Su molti di questi, tracciata con l’inchiostro oro, si legge una parola; altri invece sono immacolati. Alcune di queste parole mi colpiscono, altre mi lasciano indifferente, per altre ancora mi chiedo quale sia il significato e perché siano scritte proprio su quei foglietti, proprio in quella stanza buia… L’atmosfera favorisce l’esperienza sensoriale che sto per compiere, guidata passo per passo dalle mani esperte di Enya e dei suoi collaboratori.
Avevo già incontrato Enya Idda altre volte, e Lampioni Aerei aveva anche già avuto la splendida occasione di collaborare con lei nel laboratorio teatrale Oltre la scena, a cui molti hanno partecipato e del quale hanno tessuto le lodi. È stato però in quella sera, alla luce delle candele di Campus Cafè, che ho conosciuto Enya. E qualche mese dopo (durante il dialogo sul simbolo nelle arti performative avuto all’interno del ciclo di incontri “La letteratura e gli altri: dialoghi”, quando ho avuto modo di chiedere a Enya di raccontarmi la sua esperienza nell’ambito delle performance interattive e del teatro esperienziale), non ho potuto fare a meno di ritornare con la mente a quella sera.
Nel teatro esperienziale, che io e tanti altri abbiamo vissuto e che Enya ha poi raccontato nel nostro dialogo, lo spettatore diventa il fruitore del rito, un rito che peraltro spesso è collettivo: ad esempio, quello messo in atto dagli spettatori e dagli attori durante la performance dedicata al tema del lavaggio del denaro, a cui Enya ha collaborato qualche tempo fa. In quel caso si trattava di prendere coscienza del significato del denaro, un oggetto spesso percepito come qualcosa di sporco e da nascondere, ma di cui comunque si ha bisogno. Il gesto di lavare il denaro si carica allora di una valenza simbolica, in una performance collettiva in cui lo spettatore non osserva, ma prende parte attiva al grande e unico simbolo che si sta creando. Capita spesso in questi casi che lo spettatore risponda all’interazione con gesti inusuali, non previsti dal “copione”, perciò gli attori (gli ospiti) si trovano a dover replicare con un gesto altrettanto inusuale, non pensato prima, e stupirsi della situazione sempre nuova che si genera con ogni spettatore. Perché nel teatro interattivo e sensoriale, il linguaggio che conta non è quello della parola, ma quello dell’esperienza. Mi accorgo ora di aver scritto poco fa (e senza essermene resa davvero conto) di aver vissuto il teatro esperienziale: così come le esperienze che ci toccano nel quotidiano, anche il teatro esperienziale non si guarda, ma si vive.

«Nell’arte scenica è impossibile distinguere il gesto dall’astante o dal corifeo, l’arte scenica è veramente un momento unico in cui tutti stanno compiendo un unico grande gesto. E quello è il grande simbolo».


Nel dialogo con Enya abbiamo parlato di simbolo che si fa gesto, o più precisamente di gesto (teatrale) che si fa simbolo: anche banali gesti quotidiani, come quello di sollevare la tazzina per bere il caffè, o portare le mani al petto per abbottonarsi la camicia, possono – se correlati e posti in interazione l’uno di fronte all’altro – raccontare qualcosa di più, qualcosa che va oltre la scena. Qualcosa che nell’osservatore assume un significato del tutto nuovo, secondo la distinzione che Umberto Eco faceva tra segno e simbolo: se il segno ha un rapporto molto diretto con ciò a cui si riferisce, il simbolo è invece aperto. E se questo vale nel campo letterario e in poesia allora tanto più ha valore nell’ambito della gestualità corporea, sia essa costituita dai comuni e ripetitivi gesti della quotidianità o al contrario da segni più complessi e costruiti, tramandati generazione dopo generazione o collegati a un immaginario religioso e spirituale.
Oggi, in questo anno così atipico, la gestualità corporea si arricchisce di nuovi simboli, nuovi gesti nati proprio dalle esigenze diverse che ha richiesto la situazione (inedita per moltissimi) di pandemia: non ci si dà più la mano, ma ci si saluta accostando i gomiti o i piedi; prima di abbracciare qualcuno gli si chiede il permesso; quando si incrocia per strada uno sconosciuto non si cammina più dritti nella sua direzione ma si compiono grandi curve per evitarlo. Così ci si guarda negli occhi, ci si scruta come animali diffidenti e assaliti dalla paura di “prendere il virus”, con in testa un’unica domanda: “Ma quello che sta camminando verso di me ce l’avrà?”. Aumenta la distanza, si dialoga ormai da dietro lo schermo di un computer, ma forse il vero problema non è la distanza, che al contrario potrebbe costituire un’opportunità anche per mettere a fuoco meglio ciò che si osserva, bensì, sostiene Enya, il controllo su questa distanza, su tutte queste nuove abitudini.

Il video dell’incontro

Breve biografia di Enya Idda

Nasce in Sardegna in un piccolo paese dove il principale gioco dei bambini era creare con l’argilla raccolta nei campi.

Si trasferisce a Torino dove avviene la sua formazione artistica e si laurea in pittura presso l’Accademia Albertina di Belle Arti. Contemporaneamente si dedica alla danza e al teatro.

Si trasferisce a Milano dove avviene la creazione di un collettivo artistico dal nome “Anamani” che indaga attraverso diversi viaggi e esperienze immersive l’origine del processo creativo e la ricerca antropologica dell’arte. Studia in questi anni la relazione tra l’arte, lo sciamanesimo e la rappresentazione del mito. Nello stesso periodo l’incontro con Ai tchuourek, sciamana di Tuva, nutre la sua conoscenza dell’identità femminile.

Frequenta la scuola Artea per apprendere l’Arteterapia a modello Polisegnico, scuola in cui ora insegna.

Per nove anni apprende da Cristobal Jodorowsky lo studio pratico dello Psicosciamanesimo, della Metagenealogia e la relazione tra azione teatrale e rito di guarigione.

A Barcellona si innamora del Teatro Sensoriale fondato da Enrique Vargas e continua a praticarlo a Milano con la regista Antonella Cirigliano, fondatrice del gruppo LIS.

La ricerca nell’ambito delle arti sceniche le regala due bravi maestri: Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, attori della compagnia Sud Costa Occidentale fondata da Emma Dante, le trasmettono un metodo prezioso che inserirà presto nella sua professione.

Insegna Hara Yoga da più di vent’anni, disciplina fondata dal maestro Gio’ Fronti, dove ha potuto sviluppare la ricerca della rappresentazione del mito nella filosofia orientale.

Ha iniziato la scuola di formazione SAT fondata da Claudio Naranjo.

Attualmente vive tra Milano e Sardegna. Svolge la professione di Arteterapeuta e Artista.

Collabora in ambito aziendale per la creazione di Team Building e percorsi di conoscenza attraverso l’arte.

Si occupa di installazioni interattive e performance relazionali. Per lei l’arte è un rituale iniziatico attraverso il quale creatore e fruitore collaborano per il risveglio della coscienza spontanea e del rispetto della poesia della vita.

Da anni tiene incontri residenziali in natura, profondi viaggi nella sperimentazione attiva delle funzioni del cervello attraverso l’arte, la vita comunitaria, il risveglio del corpo e la sua vitale percezione.

Nel frattempo continua a giocare con l’argilla realizzando sculture di grandi dimensioni con il metodo Ordit e costruendo forni di carta per le cotture sperimentali.

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