Riflessioni
Entrando in classe, Fabio Pusterla – professore – puntualmente si sfilava l’orologio dal polso. Poi, mentre parlava, lo rigirava tra le mani, facendolo distrattamente cadere a intervalli regolari sul banco; come troppo assorto per prestarvi attenzione. Questo gesto – che conserva nella mia memoria particolare forza e nitidezza – tutt’ora mi comunica la sensazione di portare in sé un significato nascosto, che riguarda in qualche modo l’idea che il tempo istituzionale rappresentato da quell’oggetto, quello della canonica ora e mezza di lezione, fosse qualcosa che lì dentro, in fondo, in quell’aula, non ci riguardasse poi tanto.
Un ricordo affacciatosi in maniera spontanea, questo, mentre seguivo l’incontro virtuale tra Fabio Pusterla e Eleonora Gioveni dedicato al tema del Simbolo; incontro che ha preso le mosse da una riflessione etimologica sul termine stesso, preso in considerazione non in rapporto alla sua matrice ottocentesca ma nella sua accezione più ampia di mezzo che unisce, che lega due elementi: un senso oggettivo e visibile con un senso invisibile, più profondo.
La parola, soprattutto quella poetica – spiega Pusterla – può essere considerata un simbolo, in quanto tenta di unire elementi distanti tra di loro. E questo anche molto concretamente: l’utilizzo simbolico del linguaggio – come viene qui inteso – non si limita a creare connessioni autoreferenziali e interne al proprio sistema, ma consiste in uno slancio vitale, in un’azione che può avere un effetto tangibile su ciò che sta al di fuori di sé.
Pusterla ricorda un incontro avvenuto per strada a inizio pandemia con una conoscente, la quale – tra le altre cose – gli diceva che in questo mondo «ci vorrebbe più poesia», evidenziando come oggi forse si faccia sentire come sempre più necessaria la capacità di trasformare il dato bruto e apparentemente incontrovertibile di realtà, di cui saremmo altrimenti prigionieri, in qualcosa di diverso, di più ampio e abitabile; e questo meccanismo – dice Pusterla – ha indubbiamente a che fare con il linguaggio simbolico.
La parola, ma anche il gesto («e se un gesto ti sfiora, una parola / ti cade accanto, quello è forse, Arsenio, / nell’ora che si scioglie, il cenno d’una / vita strozzata per te sorta»): 1 si pensi alle pitture rupestri – riflette Pusterla –, alle impronte delle mani dei nostri lontani antenati dipinte sulle pareti delle grotte. Impronte la cui realizzazione richiedeva un processo assai concreto, un gesto quasi atletico: gli uomini primitivi si riempivano la bocca di vernice e poi sputavano sulla propria mano appoggiata alla parete, facendo sì che ne restasse l’impronta. Questo è uno degli archetipi, dice Pusterla, del linguaggio artistico, che non consiste nel semplice uso della parola o del segno, ma in un gesto che implica la presenza fisica, la concreta messa in gioco di sé.
Da qui il mio ricordo liceale, che emerge nel momento in cui viene evocato proprio il tema dell’importanza – in particolare, nell’ambiente scolastico – di una dimensione simbolica legata al gesto; importanza intesa come necessità, se si intenda instaurare un contatto autentico con gli studenti («gli studenti se ne accorgono subito» – dice Pusterla – «se dietro a ciò che dici e ai tuoi atteggiamenti ci sei tu come persona oppure nessuno, soltanto un tetro impiegato dell’educazione»).
Per Jung, che più di ogni altro si è occupato di simboli nella storia della psicologia del profondo, il simbolo vivo – portatore di un contenuto che non riesce ad essere espresso in altro modo, se non quello simbolico – è strettamente legato a qualche aspetto dell’inconscio che tenta di emergere, e la possibilità per l’individuo di entrare in relazione con esso dipende dall’atteggiamento della coscienza: se chiusa, essa tenderà a ridurre i contenuti di tale simbolo al già noto (alle proprie esperienze passate), mentre se aperta la coscienza assumerà nei confronti di questi contenuti un atteggiamento che possiamo definire finalistico, ovvero volto – oltre che a ricercare l’origine di quel determinato prodotto psichico – soprattutto a determinare verso quale direzione esso tenda, che scopo abbia. In questo modo l’elemento simbolico, all’interno dei processi psichici, gioca un ruolo fondamentale nella crescita del sé, come anche – conseguentemente – nello sviluppo delle capacità dello stesso individuo di abitare il mondo e di entrare in contatto con esso, in quanto potenzialmente in grado di proiettare verso l’altro da sé, verso l’ignoto.
Ed è in questo senso che anche il linguaggio poetico, dice Pusterla – «che credo sia non esattamente parallelo, ma certamente complementare al linguaggio della psicoanalisi» –, può farsi simbolo e l’uso simbolico della parola e del gesto avere questo effetto bifronte, ovvero da un lato riuscire a illuminare misteriosamente il passato, e dall’altro a suggerire un orizzonte verso il futuro.
Il meccanismo simbolico assumerebbe così un ruolo fondamentale, tanto nella scrittura poetica quanto nell’insegnamento: quello di favorire – per vie segrete, implicite, anche misteriose – uno slancio conoscitivo, una fuoriuscita da sé, aprendo anche alla concreta possibilità di un dialogo e di un incontro con l’alterità.
Ed è senz’altro in questa direzione che muove la poesia di Pusterla, una direzione che, partendo da una propria soggettività, dalla sensibilità soggettiva dell’individuo che scrive – ricordando anche Bachelard –, si indirizza poi verso la soggettività e la sensibilità del lettore, dell’Altro. Se da una parte sarebbe impossibile – afferma l’autore – tentare di scrivere rinunciando alla propria soggettività, perché allora la parola perderebbe la sua valenza emozionale e affettiva, dall’altra parte, invece, è fondamentale che la poesia non si lasci imprigionare in una soggettività claustrofobica, ma è necessario che si proietti al di fuori di essa, che diventi una sorta di no man’s land in cui ciascuno possa sprofondare la propria soggettività. Pusterla cita – a tal proposito – Antoine Emaz, il quale parla di «lirismo critico»: lirismo, certo, se questo significa partire dalla propria sensibilità e dalla propria esperienza, da una loro estetizzazione, ma critico nella misura in cui ciò non è ancora sufficiente; è necessario infatti far sì che ciò che si scrive possa venire abitato anche dagli altri, indipendentemente da noi.
Viene allora da pensare a una scena di Libellula gentile, documentario dedicato da Francesco Ferri all’esperienza poetica di Pusterla: «La scrittura» – spiega l’autore a una classe di giovani studenti – «può essere come una carezza, un gesto concreto che permette quasi di toccare realmente con la mano l’altra persona, di sfiorarla, per cercare di stabilire con essa un contatto profondo»; non a caso concludendo con un’osservazione dai toni amari sul venir meno oggi di quell’educazione sentimentale di cui dovrebbe occuparsi l’insegnamento, a fronte di una scuola che è invece sempre più tecnica e il cui scopo non sembra più essere quello di educare, ma di istruire. Ed è così allora – conclude Pusterla – che in sostanza «ci hanno fregato la poesia».
Cos’è una roccia? un fiore?
Cosa una teleferica, cosa una mongolfiera,
un sentiero, un animale morto, una stella?
Cos’è un bastone, un’aquila, un fiume,
cos’è una frusta, una pallottola, una malattia,
la fine di tutti, una rondine caduta? E il male cos’è?
Truganini saprebbe tutte le risposte.
Truganini conosce tutte le domande.
E l’ultima fa più male chiede perché.
Si affaccia sul vuoto o sulla storia.
Sul vuoto della storia. Truganinilo sa e si sporge. Li inquieta. 2
Il video dell’incontro
Le letture
“[…] La prima serie è parte di un lavoro più ampio ma è appena uscita su “2020 L’Europa dei poeti” (Argo). Sono sette/otto frammenti che ruotano attorno a una stessa figura (di nuovo l’immagine della figura) che onestamente io non so dire, ancora adesso, per quale ragione mi abbia così colpito e così, come posso dire, preso per mano e condotto verso non so dove. Questa figura l’ho incontrata casualmente leggendo un libro di storia generico, di storia del mondo, e ha un nome questa figura: Truganini.
Truganini era, secondo le cronache, una donna, l’ultima aborigena tasmaniana che è sopravvissuta al totale sterminio, genocidio del suo popolo. Gli aborigeni della Tasmania erano vissuti per 8000 anni circa in totale solitudine. Nessuno sapeva che esistevano e nessuno dava loro fastidio. Erano ovviamente arrivati alla Tasmania passando dall’Australia. Ma poi, quella che un tempo era una lingua di terra si era inabissata e quindi la Tasmania era diventata un’isola sconosciuta ai più. Poi, nell’800, sono naturalmente arrivati i coloni europei e nel giro di nemmeno un secolo hanno sterminato, con i soliti metodi, gli aborigeni.
Truganini, ufficialmente, è stata l’ultima donna aborigena, l’ultima a morire…
Perché mi abbia così colpito: è argomento su cui rifletto senza ancora trovare una soluzione. […]”
Fabio Pusterla
Breve biografia di Fabio Pusterla
Fabio Pusterla (1957) insegna presso il Liceo Cantonale di Lugano 1 e l’Università della Svizzera Italiana. Vive prevalentemente in Valsolda, a cavallo tra Svizzera e Italia, e dirige la collana Le Ali dell’editore Marcos y Marcos.
Attivo anche come studioso, saggista e traduttore, in particolare di Philippe Jaccottet (della cui opera completa raccolta nella Bibliothèque de la Pléiade ha firmato la prefazione, con il titolo Le parti de la clarté), è soprattutto autore di numerose raccolte poetiche.
Tra i suoi libri si ricordano: Concessione all’inverno (Casagrande, 1985), Bocktsten (Marcos y Marcos 1989), Le cose senza storia (ivi, 1994), Pietra sangue (ivi, 1999), Folla sommersa (ivi, 2004), Il nervo di Arnold (ivi, 2007), Una goccia di splendore (Casagrande, 2008), Quando Chiasso era in Irlanda, e altre avventure tra libri e realtà (ivi, 2012), Corpo stellare (Marcos y Marcos, 2010), Argéman (ivi, 2014) e i recenti Cenere, o terra (ivi, 2018) e Luoghi,maestri e compagni di via (Casagrande, 2018). Recentissima la plaquette Figurine d’antenati (2020), edita a Lugano per le edizioni Alla Chiara Fonte.
Parte della sua opera è raccolta nel volume antologico Le terre emerse (Einaudi, 2009). Sul suo lavoro il regista Francesco Ferri ha realizzato il film documentario Libellula gentile. Il lavoro del poeta, ora inserito nell’omonimo volumetto curato da Cristiano Poletti per Marcos y Marcos (2019).
NOTE: