Ritagli n. 1

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Autoritratto

Irene Santori, Hotel Dieu, Empirìa, 2015, p.10

volto della preda
poggiata verso
le scuciture,
mi guardi inetta mandorla
appena prima del sasso

e da lì
a tratti albeggi

mio sogno quadrisillabo,
nonverde
nonvedente
avanticristo

Autoritratto” è sola, nella pagina. Non è accompagnata da nessuna delle tante note che scortano il lettore nello svolgersi la raccolta, costanti e discrete guide al disvelamento dei significati. Si ha l’impressione, addentrandosi nell’opera di Santori, di trovarsi di fronte a qualcosa che sfugge pur essendo esposta in piena vista, senza coperture. Non esiste mistificazione, in Hotel Dieu, se non come sottile e leggera intenzione di riscrittura di cose avvenute.

Tra i versi di “Autoritratto” si intravedono così i particolari fisici di parti del corpo mai evocate direttamente o chiamate per nome. Eppure, in piena vista. Nel momento che prelude al “sasso”, alla fissità statica della res irrigidita fino alla pietrificazione, lo sguardo della poetessa si stringe intorno a un dettaglio che diventa preda, che guarda a sua volta – in maniera inetta. Come “mandorla”, la preda dei suoi occhi è immobile, “poggiata” e in attesa di un amplesso che sconvolga l’ordine logico-lineare degli oggetti. Le parole di Santori non sono dolci, non cedono il passo a una delicatezza manipolatoria: la realtà del corpo si palesa nella sua essenza femminile, clitoridea, con la franchezza di un discorso fatto a una madre o a un amante.

Così nella seconda, strofa a cui cede il passo il “sasso”, seguono il fremito e le vibrazioni che sconvolgono il corpo: “a tratti”, come reflusso delle onde, l’alba sensoriale pervade il fisico come proiettandolo in un sogno lucido. In questa dimensione le parole si fanno appigli a cui aggrapparsi, si caricano di un valore cardinale che sopprime lo svolgersi di un discorso sintattico. Occupano, sole, lo spazio intero del verso. I termini non sono portati ad alcuna distorsione semantica. L’ordine della comprensibilità esteriore non è turbato da alcuna intromissione semica. L’univerbazione tra il ‘non’, che diventa suffisso, e i suoi corrispettivi, non opacizza il senso del termine che viene a formarsi. Al contrario, sembra precisarne le sfumature come offrendo una lente d’ingrandimento.

Santori non dice qualcosa, dice questo. E lo ripete per tre volte, andando come a scandire un concetto unico. Il senso della sovrapposizione si rende dunque mistico, sintetizzato nella componente cristica evocata dall’ultimo termine – conclusivo della poesia tutta. Il tempo stesso dell’amplesso, già trascorso al momento della composizione, affonda in un passato tanto remoto da precedere la venuta al mondo del Signore. Da quel tempo chiama, lontano, come la voce inetta di una parte del corpo senza labbra, senza voce. Da quel tempo, con la sola mediazione della poetica di Santori, diventa verso. Vive.

Ritagli“, la rubrica ideata e curata da Stefano Bottero, prevede per ogni sua uscita la presentazione di una poesia contemporanea per un’analisi concettuale, del significato. Si vuole avviare con il lettore un percorso critico semplice e diretto, accessibile a tutti, più o meno esperti di poesia, senza che sia necessaria una preparazione interpretativa specifica.

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