Come se i maschi fossero arrivati con noi
Giorgio Ghiotti, Alfabeto Primitivo, Giulio Perrone Editore, 2020, p.57
Come se i maschi fossero arrivati con noi
(esistesse almeno un noi di sottospecie
invece di questi frantumi lui, tu, forse un io)
e prima erano arbusti a fondo scena
eravamo piante non ancora nate
con un passato di pioggia sulla schiena
non sintetizzavamo il dolore
reclutavamo segni di pace nel cielo
e il cielo passava più forte, resisteva,
il cielo resisteva alla vita normale come alla morte
i maschi sfioravano le belle alzando loro le gonne
l’amore tenace graffiava le gambe alle donne…
Alfabeto primitivo appartiene al numero di quelle raccolte di poesie che hanno visto la luce del 2020. È un dato da tenere a mente, nell’approcciarsi alla sua lettura. È necessario ricordare che questo insieme così denso una vita appartenuta ai suoi protagonisti abbia mosso i suoi primi passi nelle strade deserte di una società – quella occidentale – sconvolta.
Pensare a questi versi, vergini di stampa, rimanere chiusi tra gli scaffali di una libreria chiusa al pubblico, comporta un sentimento difficile da descrivere a chi non abbia vissuto l’alienazione nuova di quei giorni. Un sentimento relativo non all’aver perso il tempo della vita, ma al non riconoscere più la propria vita nel tempo. E questo perché l’Alfabeto primitivo di Ghiotti è quello di una vita che abita il tempo, che ne occupa le stanze. Una vita di case, di parenti, di treni, di amori di flora e di fauna, di colori, di sconfitta. Una vita in cui l’aver messo in questione ciò che ci è stato trasmesso da generazioni ha incrinato le lenti degli occhiali, ha richiesto nuove montature per guardare i corpi degli altri così come sono.
La fisicità stessa, nella poesia di Ghiotti, è problema. E problema non risolto – non assolto, così come non lo sono le radici della storia del genere maschile. Nel primo segmento della poesia, composto dai quattro versi in tondo che precedono il corsivo, la relazione tra l’io del poeta e il contesto del suo genere si mostra già spezzata da un’ipotesi di diversità. A dispetto di una realtà maschile presente, negativa, il poeta guarda alla fantasia che il “noi” del contesto relazionale a cui appartiene (“lui, tu, forse un io”) possa aver mossi i primi passi del suo genere sulla terra. Che non sia esistito nient’altro prima di questo, se non “arbusti a fondo scena”. Una fantasia, appunto, considerato il peso delle decine di secoli di storia dell’agire maschile.
L’ipotesi di Ghiotti scivola nella fantasia: il carattere cambia nell’italico, il suo sguardo si addentra nell’epopea del genere come fosse un mito di riferimento. Cosa sono stati, i maschi, all’inizio della storia? Cos’ha portato il genere ad agire come agisce? “con un passato di pioggia sulla schiena / non sintetizzavamo il dolore”. Non svaniva per catarsi nelle pieghe delle nostre vite. Rimaneva, giorno per giorno, sotto un cielo uguale a sé stesso, dalla preistoria a oggi. Un cielo al quale pregavamo, “reclutavamo segni di pace”, e che tuttavia è rimasto immobile nella sua resistenza.
Gli ultimi due versi tornano in tondo: il poeta torna al reale delle cose. L’ipotesi iniziale s’infrange. Sarebbe stato bello se i primi passi del genere maschile sulla terra fossero stati i nostri, quelli di una specie consapevole del dolore non sintetizzato. Sarebbe, ma non è. Così per secoli ‘abbiamo’ esercitato violenza e sopraffazione, ‘abbiamo’ preso, senza aspettare la risposta a una richiesta che non ‘abbiamo’ espresso. La poesia si conclude così, nello spazio fulmineo di una riflessione. Come l’ammissione di un animo maschile consapevole di sé, della storia a cui appartiene – senza averlo chiesto. Senza colpa, ma non per questo incolpevole.