Ho lasciato estranei nelle voci
Alessandro Anil, Versante d’esilio, Minerva Edizioni, p.55
Ho lasciato estranei nelle voci, così da poterli amare e contorni
sfumare appena in queste pieghe, tenerezza e ripetizione
di gesti a noi vicini, il tempo è una pietra e la pietra
una congiunzione, un cuore e poi inverni, assenze,
l’avvento fresco e distratto di una stagione,
la materialità improvvisa del sapore, un acino d’uva
scivola ai tuoi piedi e io penso al sangue, all’incessante monologo
che vado compiendo, la lingua e il piacere, la mano che scava
nella veste, siamo l’immagine di un fuoco che eternamente brucia,
eternamente trova la sua vena, questo tuo dono amaro
che porto come un richiamo immanente,
ormai da troppo… se solo sapessi… se solo,
quanto vorrei essere inventato un’ultima volta,
per intravederti ancora nella mia più pura innocenza,
per amarti, ma senza quell’impazienza delle vicende umane.
Un bicchiere si svuota mentre bevi e io osservo questo svanire
di ogni cosa dietro lo schermo inevitabile degli avvenimenti.
La poesia di Alessandro Anil non invita. Non convoca, non richiama all’ordine. Resta scolpita, immobile, in una duplicità esperienziale/esistenziale. Versante d’esilio non è un racconto e non è un trattato, non è una raccolta che attira nel senso letterale del termine. Interagire con essa come lettori, significa attraversare la barriera di quello che non siamo – che non significhiamo. Accedere a uno stato in cui l’imprecisione è dogma, l’inaffidabilità della percezione è punto cardinale. In altre parole, non a un’esistenza oggettualizzata come res, ma all’esistenza come esperienza che trascorre. I dettagli dell’intimità, i particolari più minuti, prendono posto nel vortice del tutto. Così “il tempo è una pietra e la pietra / una congiunzione”: nell’immobile dell’esser-ci, i rapporti tra gli oggetti si cristallizzano nell’unico. Anil tenta di decostruire con i versi l’eterno, passo per passo, tassello per tassello. L’enumerazione degli elementi empirici della vita, pesantemente connotati dalle sensazioni, non segue il criterio di una moltiplicazione senza senso. Al contrario, il poeta accompagna il lettore alla vista di un universo mai disarmonico, tenuto insieme dalle stesse leggi degli oggetti fisici: “siamo l’immagine di un fuoco che eternamente brucia”.
Che posto occupa l’io in tutto questo? Nell’undicesimo verso, la soggettività irrompe. La volontà singolare, espressa come una confessione a fronte del manifestarsi dell’esistenza, guida il poeta a desiderarsi oltre la cortina fisica dell’esser-ci. Sarebbe bello amarsi puramente, liberi dall’ingombro dell’umanità tangibile. Risuona il richiamo, forse involontario, dei versi di Pope nella Lettera di Eloisa ad Abelardo: “How happy is the blameless vestal’s lot! / The world forgetting, by the world forgot. / Eternal sunshine of the spotless mind!”. Eppure le radici filosofiche della poesia di Anil si spingono ben oltre il diciannovesimo secolo. Affondano nel terreno della metafisica e della mistica antica. Nello svuotarsi di un bicchiere, lo scadere del tempo. L’istantanea fine del momento presente, impossibile da stringere. Tutto quanto prosegue ad avvenire. Così la combustione eterna del movimento, così l’amore e i desideri di un poeta.