Lode alla malattia
Nunzio Di Sarno, Mu, Oèdipus, 2020, p.66
Lode alla malattia
Perché senza scampo
Qui e ora
Nei vicoli ciechi della mente
Il corpo si immobilizza
Il fremito diventa estasi
Le lacrime battezzano a nuova vita
Non si può che risalire
I versi di Di Sarno sono versi della discesa. La sua esperienza stilistica, vicina all’aforisma e alle prospettive apodittiche della mistica, rende Mu un’opera unica nel panorama poetico contemporaneo. La capacità dell’autore di connettere un atteggiamento sapienziale, illuminato a tratti, con un lucido e costante contatto con le cose-del-vivere, connota strutturalmente la sua scrittura poetica. Si presenta, paradossalmente, come ‘novità riconoscibile’, per niente ostica.
Lode alla malattia è un esempio concreto di tutto questo: in pochi versi, liberi da complessità nella comprensione logico-sintattica, l’autore scende nelle profondità di un antro insito nel vivere: quello della decadenza, del disfacimento. La prima coppia di versi, quasi una dichiarazione poetica, afferma una verità che non ammette repliche. L’assenza di scampo – o meglio, di possibilità di scampo – per chiunque in ogni dove. Appunto, nel “qui e ora”, in cui la paralisi progressiva di un corpo biologicamente caduco prende avvio nel buio dell’inconsapevole, di ciò che pur essendo nella mente resta nascosto alla nostra elaborazione logica.
Nello spazio recondito del paradosso il “fremito”, la decadenza del corpo malato, si fa progressivamente “estasi”. Nel futuro morire le nostre cellule si liberano dal peso del tempo, dell’appesantirsi, e raggiungono lo stato in cui il dolore è riscattato non solo spiritualmente, ma fisicamente anche. La poesia di Di Sarno non è così poesia dell’anima e dell’immateriale, ma discesa nel vulnus di una processualità corporale verso la fine. Nei suoi versi, nella discesa che compiono verso l’irrevocabile di verità universali, la vita si correla a suggestioni evocate da termini e da elementi semplici, linguisticamente comprensibili, facili da raggiungere nelle rappresentazioni dell’immaginazione.
Il battesimo, le lacrime, la vita, prefigurano una realtà ‘uguale per tutti’, innegabile: quella del rinascere. Così giunge l’ultimo verso, in cui le possibilità altre sono escluse e il tracciato verticale di un’umanità che decade nella malattia appare ritratto con la desiderabilità di cui solo le strade senza uscita sono dotate. Non si può che risalire. Non si può che arrampicarsi vero l’impossibile, mentre il corpo decade. Forse, inconsapevoli, non stiamo che scendendo per un crinale che guardiamo al contrario. Non stiamo facendo altro, nel resistere, che assecondare la morte – introiettata dal decadimento. Il dubbio rimane, instillato dalla certezza dogmatica del dovere ammalarsi, discendere, piangere, finire.
Con grande maestria, Di Sarno costeggia la disperazione: la inganna – e forse ci inganna – rivolgendo lo sguardo altrove.